Co-branding: funziona, ma non è privo di rischi

A cura di Stefano Vatti

Alcune recenti attività sono l’occasione per analizzare i pro e i contro di queste operazioni di marketing.

Quando il direttore mi propose questa rubrica, mi disse da subito che il co-branding sarebbe stato un argomento interessante da trattare. Non lo contraddissi, non mi negai. Risposi solo “certo, ci penserò”. 
L’occasione per riprendere il discorso non ci fu più, complice il susseguirsi di eventi di cronaca che apparivano più accattivanti.
Poi, in un sabato pomeriggio di luglio, vagando per il centro di Milano con il primogenito diretto in una nota libreria dove speravo di trovare un testo tecnico per i suoi studi, sono passato per caso di fianco a un temporary store a tema. L’interprete delle nuove tendenze – il figlio adolescente – era accanto a me, aiutandomi ad avere la conferma che il tema del negozio fosse quello di una notissima serie Tv: “Stranger Things”. Immediatamente mi è tornata alla memoria la notizia che pochi mesi fa era stata annunciato un accordo di co-branding dedicato a quella serie Tv, tra la proprietaria dei diritti d’autore e Lacoste, avendo la maison francese previsto una linea per “Stranger Things”.

Netflix-Lacoste

In particolare, il famoso coccodrillo, da tempo ben impresso nella mente del consumatore e per alcuni anni considerato fra i segni più contraffatto al mondo, almeno nel mondo dell’abbigliamento, subisce una metamorfosi, assumendo nell’area delle fauci forme differenti, con un evidente richiamo alla serie televisiva, tanto che si può considerare certa (anche se non ci fosse stata una campagna pubblicitaria di supporto a raccontare l’accordo) la collaborazione tra le due società.Di contro, la Mattel ha recentemente contestato negli Stati Uniti d’America il deposito del marchio “BRBY” per mano di Burberry’s, considerandolo troppo simile al proprio – altrettanto storico – marchio “Barbie”, tutelato e usato anche nel settore dell’abbigliamento.
Due visioni strategiche differenti: da una parte si modifica il logo per trovare una sinergia, dall’altra si nega ogni possibilità di coesistenza, prevedendo che il segno evocativo possa distrarre il pubblico di riferimento. Come sempre, non c’è una strategia univocamente corretta, semplicemente diversa è la visione da parte dell’impresa.
Nel caso Lacoste/Netflix si assiste a un rimaneggiamento davvero molto importante dell’originario segno, probabilmente approfittando del fatto che il marchio è talmente noto che viene riconosciuto anche di fronte a una modifica così importante. Allo stesso tempo, proprio il fatto che sia sufficientemente diverso è garanzia che si comprenda la portata eccezionale dell’operazione, con tempi e diffusione particolarmente limitati. In altre parole, la società francese si è mossa con la giusta e prevedibile circospezione per ridurre al minimo i rischi che il proprio marchio principale potesse essere in qualche modo confuso con segni troppo simili, aprendo quindi il rischio alle contraffazioni.
Nello stesso tempo, Neflix – con il suo marchio forte – ha garantito che non potesse essere messa in discussione la qualità del partner per questa scorribanda nel mondo del merchandising, rafforzando così la propria brand identity rispetto alla clientela, senza tuttavia rischiare che ci fosse un legame eccessivamente stretto con la maison francese.
In questi termini, parrebbe tutto semplicemente perfetto, una cosiddetta operazione “win-win” senza rischio alcuno, da studiare e replicare senza eccessive preoccupazioni.
Mentre convengo che l’operazione così costruita, considerati i player in gioco così rinomati e i settori merceologici così differenti, l’operazione sia effettivamente “win-win”, occorre essere molto prudenti nel replicare “ciecamente” un tale tipo di operazione.
Il proprio nome, il proprio logo, sono un biglietto da visita agli occhi del pubblico di riferimento: occorre la medesima circospezione usata dalle due compagnie, trovando un partner per il co-branding che non vada a sminuire il valore del proprio segno, né finendo per diventare una sorta di linea di prodotti ideata dall’altra società, perché la sua rinomanza è nettamente superiore.
Allo stesso modo, è bene avere la ragionevole certezza che il partner abbia la necessaria solidità sul mercato e che non siano prevedibili incidenti di percorso. Scrivevano i latini “simul stabant, simul cadunt”: la perdita di rinomanza di un marchio, per le più svariate ragioni, potrebbe diventare motivo per una perdita di interesse del pubblico anche all’altro segno, con il risultato opposto a quello in precedenza descritto per il caso Lacoste-Netflix.

Il caso Burberry-Mattel

Una riflessione veloce merita anche la decisione di Mattel di voler negare alla società Burberry la tutela del marchio “BRBY”, considerato troppo simile al marchio “BARBIE”. Da un punto di vista tecnico, il marchio di Burberry è una sigla, o un acronimo, che a livello concettuale e visivo appare decisamente differente dall’altro noto marchio. E per questo il rischio che la questione non abbia buon esito per la casa di giocattoli non è proprio remoto.
In quest’ottica la scelta, lecita e tecnicamente comprensibile per dimostrare la forza del proprio marchio, di intentare opposizione lascia qualche perplessità, finché non si considera il fatto che in passato era stata proposta una produzione limitata di “Barbie Burberry”, ovvero un co-branding, in cui i due marchi convivevano sulla stessa scatola, proponendo ovviamente abiti della casa inglese.
La scelta quindi di tutelarsi risulta un atto quasi dovuto, perché il rischio che il ricordo agli occhi del consumatore non sia del tutto svanito, non è propriamente da escludere, soprattutto in un momento in cui è stato programmato un rilancio importante del marchio della Mattel, che certamente andrà a interessare un pubblico vasto. Svelato questo piccolo retroscena, non è del tutto illecito supporre che anche l’accordo tra Lacoste e Netflix possa portare qualche sorpresa in un futuro, non prossimo, non tanto nelle relazioni tra le due società (il rischio di compenetrazione di interessi è qui limitato), quanto nella creazione di altre modificazioni, non licenziate dalla casa francese, che però appaiano al pubblico di riferimento sufficientemente diverse, rendendo non ravvisabile il rischio di confusione tra i due segni.

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