Marchio e prodotto: rapporto inscindibile?

A cura di Stefano Vatti

È di questi giorni la notizia che uno storico marchio italiano dell’eccellenza della moda si trova al centro di una vertenza internazionale. La proprietà è in capo a una società inglese, ora in liquidazione per il mancato pagamento di tasse, mentre la produzione è sempre rimasta in Italia, con il relativo know-how che ha storicamente reso la società un fiore all’occhiello del “made in Italy” nella moda.


La società italiana, che del marchio detiene la licenza, è ora in grave difficoltà, anche a causa della titolare del marchio a livello globale, una società inglese, che è stata dichiarata fallita dall’Alta Corte Britannica per non aver pagato oltre 3 milioni di tasse.
I curatori fallimentari della società inglese hanno considerato che i marchi in capo alla società abbiano ancora un valore spendibile agli occhi del pubblico, tanto che hanno provveduto a metterli in vendita.
Nello stesso tempo, la società italiana sta accedendo all’amministrazione straordinaria, nella speranza di salvare know-how e dipendenti, oltre che soddisfare le richieste dei creditori: è ragionevole supporre che gli amministratori puntino a un’oculata attività di gestione dell’azienda, trovando acquirenti interessati alla competenza degli addetti, e probabilmente contando anche sulla notorietà del marchio.

L’identità aziendale

I nodi vengono così al pettine: la società inglese ha intimato alla società italiana di non usare il marchio, dato il mancato soddisfacimento degli accordi contrattuali: i curatori inglesi negano la continuazione della licenza e richiedono che immediatamente sia smesso ogni uso del marchio, compresa la rimozione dello stesso dalle insegne aziendali nella sede principale dell’azienda.
A parte il lodevole attaccamento dei dipendenti al nome dell’azienda, tanto che in una manifestazione popolare hanno affermato che quell’insegna rimarrà, la richiesta da parte inglese è legalmente lecita: il marchio è di loro proprietà, quindi – venendo a mancare uno dei presupposti perché l’accordo di licenza sia mantenuto, ovvero il pagamento di un corrispettivo – si riconoscerebbe l’uso illecito di un diritto da parte della società italiana.
D’altro canto, risulta assai complicato comprendere come un marchio, privo dell’identità aziendale – che nel mondo del fashion è tipicamente fatta soprattutto dalla capacità di confezionare un prodotto con specifici livelli di professionalità – possa risultare in qualche modo accattivante.

Il valore di un marchio

La questione contingente pare quasi un caso di scuola, e merita alcune riflessioni su vari punti, primo fra tutti l’effettivo valore di un marchio: i liquidatori inglesi, titolari del diritto, considerano l’opzione di mettere all’asta un brand storico di alta gamma, noto in tutto il mondo, mentre i liquidatori italiani avrebbero ragionevole interesse a trovare acquirenti per le attività produttive, tenuto conto del fatto che la competenza degli addetti garantisce il mantenimento della notorietà del marchio.
Entrambe sono strategie corrette, entrambe sono strategie tendenzialmente miopi, sia pure obbligate dallo stato dei fatti. Come nell’apologo di Menenio Agrippa, infatti, marchio e prodotto sono strettamente connessi: non c’è validità dell’uno se non c’è qualità dell’altro. Il pubblico di riferimento, per quanto ampio e quindi di varia estrazione sociale e di differente cultura, è particolarmente attento e circospetto. Resta il dubbio che il passaggio di proprietà, effettuato ad esclusivi fini finanziari, e senza il trasferimento del necessario know-how non porti nella maggior parte dei casi a risultati degni dell’investimento. Sono rarissimi i casi in cui il passaggio di pura proprietà dei marchi abbia portato risultati degni di nota.


Secondariamente, lontano dalle dinamiche legate a un patriottismo molto poco sentito fuori dal mondo social e dalle discussioni da bar, la tendenza a trasferire gli asset in società “contenitore”, delocalizzate rispetto alla sede produttiva (e nella maggior parte dei casi vitale) non ha solo i vantaggi fiscali di facile comprensione, ma può comportare dei problemi. La recente vicenda dimostra che – in determinate condizioni, non tutte prevedibili – si può verificare uno scollamento anche decisionale delle società del gruppo, con il rischio che tutta la filiera produttiva ne risenta.
Infine, la tendenza a usare un asset intangibile come un bene che accresce il volume d’affari di una società finanziaria porta al definitivo sganciamento del marchio dalla produzione per soddisfare le esigenze di massimizzazione dei profitti.

Il marchio, nato per consentire al consumatore di acquistare un prodotto o un servizio con determinati canoni di qualità, perde questa fondamentale (e, in quest’ottica, valoriale) funzione, ottenendo solo un richiamo pubblicitario, il cui valore diventa sempre più modesto. L’acquisto di un prodotto, per esempio un prodotto del mondo fashion, non è più legato allo stilista, o alla sua scuola, ma al richiamo che esso ingenera nel consumatore. Finché non si presenta un consumatore che – come il bambino della fiaba – non segnala a tutti che il re è nudo. E allora, al di là delle attività di social media marketing a favore o contro quello specifico marchio, il consumatore potrebbe svegliarsi dal torpore e accorgersi che quel marchio non ha valore alcuno, perché privo di quell’anima creativa che dovrebbe sempre accompagnare – direttamente o indirettamente – un’opera dell’ingegno

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