White Label e cloni quando è utile proteggere il brand

A cura di Stefano Vatti

È di questi giorni la notizia che una nota Società di prodotti alimentari italiani abbia ottenuto il ritiro dal mercato di alcuni prodotti di una piccola azienda concorrente, perché troppo simili ai propri. La notizia ha fatto scalpore perché è sembrato per alcuni un atto esagerato e, allo stesso tempo, per altri motivo di un sospiro di sollievo.

La causa di questa doppia reazione è la medesima, diversa la lettura.

Chiunque crei oggi un prodotto che da un lato sia portato sugli scaffali della grande distribuzione e dall’altro abbia un successo non banale ha la ragionevole certezza che in tempi relativamente rapidi saranno disponibili accanto a quel prodotto una serie di prodotti analoghi, dei quali almeno un sostanziale clone “white label”.
Questa situazione ha assunto certamente dimensioni rilevanti negli ultimi decenni, quando la GDO ha optato appunto per entrare sul mercato con etichette proprie, ma la tendenza è antica, se un’entità come “Parmigiano Reggiano”, ampiamente nota e riconoscibile, ha sempre dovuto combattere – nella comunicazione oltre che nei tribunali – contro innumerevoli prodotti che miravano a parassitare la nomea del prodotto (proprio ora alla tv la pubblicità relativa recita “quello vero è uno solo”), con la recente punta dell’iceberg costituita dal cosiddetto “parmesan”, che è stata ampiamente raccontate dai mass media negli scorsi anni

Diritto o prova di forza?

Quindi, si ritorna al dubbio iniziale: si tratta di un eccesso di tutela, di un tentativo di “dimostrarsi forti con i deboli” o del riconoscimento di una violazione di un diritto?
Qualche giorno fa, ho fatto una prova durante un esame: ho mostrato a uno studente un ben noto flacone di profumo e gli ho chiesto: “voglio commercializzare questo prodotto. Come posso proteggermi?” Lo studente ha risposto prontamente “non può, è già tutelata, perché è una forma nota”. Direi che sia paradigmatico: quando la forma “nota”, di fatto diventi essa stessa marchio. E richiama alla mente un segnale, spesso non relativo al produttore, quanto relativo all’esperienza che quella forma (ovvero quanto correlato a quella forma) ha saputo offrire.

Allo stesso modo, si immagini la situazione inversa: il consumatore non è a conoscenza della specifica forma di un prodotto di grido, per esempio perché rientra da una trasferta, o perché totalmente disinteressato alla comunicazione pubblicitaria. Camminando per gli scaffali di un supermercato, trova un particolare prodotto dall’aspetto accattivante, commercializzato con un marchio ignoto (o con il marchio del supermercato), lo acquista ma la qualità non è quella attesa, ciò che verosimilmente lascia un ricordo sgradevole. È assai probabile che, nel caso di nuovi acquisti per analoghi prodotti, anche e soprattutto in altra catena di supermercati, la vista di quel particolare prodotto, con aspetto accattivante, provochi un moto di rifiuto, a prescindere da quale sia il marchio stampigliato sulla confezione o sull’etichetta.

Se il moto di rifiuto è particolarmente forte, il rischio è addirittura che il consumatore – che non ha nemmeno memoria del marchio stampigliato sulla confezione del prodotto clone – connetta la particolare forma dall’aspetto originale con un prodotto di scarsa qualità e consideri che il prodotto del marchio noto (altrimenti definito “prodotto originale”), del quale riconosce anche se disattento la paternità, sia scadente, riducendo così la rinomanza del marchio noto ai propri occhi, con la probabile conseguenza che non comprerà il prodotto considerato scadente, ma soprattutto ridurrà i consumi dei prodotti del marchio noto. Così la società che ha creato (e che si è vista contraffare) un prodotto nuovo, su cui ha realizzato tutte le ben note attività di riconoscimento del gradimento del pubblico prima della commercializzazione, si trova con un consumatore che non solo non acquista il prodotto nuovo, ma che magari mette in seria discussione l’acquisto di prodotti ben consolidati sul mercato, perché c’è il tacito timore che la qualità dell’azienda sia crollata. Non soltanto quindi un danno sul prodotto, ma un danno sull’intera immagine aziendale.
Se si accetta questa narrativa, pare palese la risposta al quesito sopra riportato: il rischio di un danno “a domino” spinge le aziende a tutelarsi anche quando pare un puntiglio o poco più.

Due elementi fondamentali

Questa narrativa potrebbe anche aiutare a capire perché l’attenzione delle imprese sia rivolta solo a certo tipo di copia, e non a tutte, contestazione che fu sollevata anche nella questione da cui è partita la riflessione. Si nota infatti che per i prodotti con il marchio della GDO di alto profilo o di alcuni concorrenti di pari nomea, l’attenzione delle case produttrici è molto più bassa, accettando che ci siano soluzioni sostanzialmente analoghe a quelle originariamente ideate.
Esistono a mio avviso due principali elementi da considerare. Innanzi tutto, nel momento in cui il rischio di un danno reputazionale è modesto, o è addirittura inesistente, perché il concorrente che usa simile forma ha pari nomea, o addirittura superiore, ha meno senso partire con azioni di contrasto aggressive. Il rischio reputazionale è molto limitato, e quindi si riduce il rischio che si perda valore lasciando che il consumatore acquisti una ricetta diversa da quella originale. Il costo di un’azione legale diventerebbe ben maggiore del vantaggio ottenuto, potendo il consumatore comunque scegliere di rimanere legato al marchio del produttore piuttosto che all’aspetto del prodotto e quindi di non acquistare in ogni caso il prodotto da chi l’ha ideato per primo e accontentandosi di altri sapori. Secondariamente, in molti casi si potrebbero creare accordi non ufficiali tra le società interessate al mercato, per i quali si viene a identificare una sorta di licenza incrociata, per cui determinati prodotti (che divengono o sono veri e propri marchi) sono messi in condivisione, con l’accortezza solo di qualche modesta differenza, di ricetta o di aspetto

Concluderei ricordando che sul mercato esistono diverse tipologie concorrenti di una bevanda analcolica gassata amarognola, di norma inserita in una bottiglia trasparente. All’apparenza sono identiche, eppure sono diversissime, e il consumatore medio sa perfettamente quale stia comprando… Ancora una volta, dispiace quasi tediare, la percezione del consumatore, il suo grado d’attenzione e la capacità di una libera scelta sono i veri motori della tutela dell’opera intellettuale che non abbia una valenza esclusivamente tecnica.

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