A cura di Stefano Vatti
Mai come in questa edizione tutte le aziende hanno dimostrato sensibilità all’etica della produzione.
A una fiera internazionale, la tradizione vuole si svelino le nuove tendenze, l’innovazione vera… Prima di una fiera mondiale di settore, gli imprenditori valutano se le nuove soluzioni meritino tutela, sotto quale forma, e si affrettano a procedere in tal senso, talora togliendo gli ultimi scampoli di tempo libero ai loro esperti in materia.
Così, pur non avendo potuto partecipare a IFA, ho pensato che potessero essere proposti prodotti innovativi, tendenze future ove vedere le piccole e grandi migliorie tecnologiche, e comunque ho provato a comprendere se ci fossero soluzioni innovative tali da evidenziare un nuovo trend. Ho così potuto constatare che un comune argomento nella comunicazione della maggior parte degli espositori ha riguardato la sostenibilità, concetto tanto richiamato quanto sfuggente e di difficile definizione, che ha subito nel tempo una certa evoluzione.
Il concetto di sostenibilità e green
All’inizio del millennio, la sostenibilità era un concetto d’avanguardia, spesso mal visto perché minava lo sviluppo e il progresso: si voleva ridurre lo spreco di risorse e i consumi, considerando necessaria e opportuna una maggiore attenzione alla tutela ambientale.Sinceramente non so se sia ancora così, perché oggi la sostenibilità è legata alle parole “riuso”, “riciclo” e “recupero”, pertanto sviluppando soluzioni che garantiscano un aumento della vita media di un oggetto. La ricerca, pertanto, si è spostata dalla soluzione tecnicamente migliorativa a una soluzione meno invasiva, con riferimento a particolari parametri, considerati utili per ridurre l’impatto sull’ambiente.
In particolare, non si tratta più di evidenziare gli elementi che accrescono la prestazione del dispositivo o del metodo di produzione, ma di dimostrare che si riducono inquinamento, scarti di processo e tutto ciò che comporta un impatto sull’ambiente. Allo stesso modo si sono sviluppati metodi innovativi per il recupero di energia o di sottoprodotti di processi produttivi, metodi per il riciclaggio di materiali considerati di scarto.
I nuovi prodotti e i nuovi processi non hanno più un vantaggio prestazionale, nella maggior parte dei casi riguardando esclusivamente una visione etico-ambientale della produzione, e non una visione di profitto nel breve periodo, come invece è stato per almeno gli ultimi trent’anni: nell’ambito della telefonia un brevetto ad alto impatto tecnologico aveva una vita media di cinque-sette anni, rispetto ai venti teoricamente previsti, dopodiché risultava obsoleto, cedibile a società che si interessavano di prodotti di fascia economica. Oggi, a quanto posso vedere, i tempi risultano più dilatati.
Il cambio di paradigma della ricerca ha portato a una nuova visione anche nella richiesta di ottenere la tutela della soluzione innovativa. In particolare, la tutela brevettuale consente di fatto nell’avere l’esclusiva nella realizzazione di un dispositivo o nell’esecuzione di un processo o di un metodo, o infine nell’uso di uno specifico prodotto per un settore non banalmente ipotizzabile. Effetto dell’esclusiva, di norma, è poter operare sul mercato in regime di monopolista (per quella specifica soluzione) e conseguentemente ottenere un vantaggio economico dalla messa in opera della soluzione tutelata.
In quest’ottica, una soluzione che potrebbe avere un vantaggio a favore di terzi, come può essere considerato l’ambiente, ma che non favorisce in alcun modo i processi produttivi, e potrebbe avere anche costi maggiori, dunque non meritare la tutela brevettuale: di fatto, ben difficilmente si ha immediato ritorno economico ascrivibile agli intangibili. Eppure, la tendenza – seppure i numeri non dicano effettivamente a quale tipo di soluzione green si faccia riferimento – mostra una crescita percentuale negli ultimi dieci anni anche del 15%, almeno nei Paesi a maggiore maturità tecnologica, come USA e Giappone.
La domanda vera
Sorge la domanda, giustamente, se tutte le considerazioni finora fatte, su cui si basano di fatto i modelli di valutazione economica dei titoli di proprietà intellettuali, siano scorrette o se ci siano altre ragioni per cui le imprese siano interessate a mostrarsi attente alla sostenibilità.
Per quanto io non possa escludere che effettivamente i modelli usati fino ad oggi siano sbagliati o desueti, mi pare ben più probabile che la seconda opzione sia preferibile e trova a mio avviso fondamento.
La decisione di richiedere l’esclusiva per prodotti o processi che abbiano l’unico vantaggio di apparire sostenibili consente alle aziende titolari di poter affermare ai consumatori di avere realizzato “una soluzione per l’ambiente”, ottenendo così un riconoscimento positivo, comunicativo e pubblicitario agli occhi del consumatore.
Le ecolabel
Questo vantaggio comunicativo, spesso, è rafforzato da opportuni marchi, chiamati genericamente “ecolabel”, volti a certificare che il prodotto acquistato è coerente con un determinato capitolato considerato “rispettoso dell’ambiente”. Nate sostanzialmente insieme allo sviluppo dell’economia ambientale, le ecolabel erano originariamente marchi convenzionali. Il proliferare degli enti certificatori, tra cui appunto quelli relativi alle pratiche ecosostenibili delle aziende, ha portato il legislatore a creare un marchio sui generis, il marchio di certificazione appunto, che può essere depositato e gestito solo da enti terzi, estranei alle attività produttive, predisposti invece a esercitare controlli per poter concedere l’abilitazione all’uso del segnoA ben vedere, quindi, poter disporre di un marchio di certificazione di alta rinomanza potrebbe risultare un vantaggio pubblicitario sufficientemente importante da consentire alle imprese di assorbire la perdita di profitti connessa con una produzione sostenibile.