La tutela dell’indicazione geografica anche per i prodotti artigianali e industriali

a cura di Stefano Vatti

È di queste settimane la ratifica del nuovo regolamento che consente l’identificazione e la tutela di indicazioni geografiche per i prodotti artigianali ed industriali, che andranno ad affiancarsi alle ben note indicazioni geografiche per tutelare i prodotti alimentari e i prodotti agricoli, i prodotti vitivinicoli e i superalcolici.

Il settore agro-alimentare

Tipicamente, le indicazioni geografiche vengono riconosciute nel caso in cui sia identificato un legame specifico tra il prodotto e una specifica area di produzione, che di norma ha assunto una particolare nomea agli occhi del pubblico di riferimento. Ad oggi, questo diritto era tipico dell’agroalimentare, per garantire da un lato ai produttori di determinate aree di essere tutelati, e dall’altro di ridurre il rischio che il consumatore sia tratto in inganno: l’assenza di una valida tutela, stante l’impossibilità di depositare un marchio relativo ad un toponimo, porterebbe all’uso illecito dell’indicazione geografica da produttori di altre zone, con gli effetti negativi sopra citati.

Sono così nate, e si sono sviluppate con densità diversificata tra i vari Paesi d’Europa, le Indicazioni Geografiche, la cui richiesta di riconoscimento era di norma affidata a consorzi per la tutela specifica del prodotto di interesse. Al sito www.qualityfind.it/dop-e-igp/mappa-della-distribuzione-agroalimentare-dop-in-europa/ si ha un’idea precisa della distribuzione delle indicazioni geografiche riconosciute oggi in Europa
Non stupisce, credo, la diffusione così squilibrata a favore dei Paesi del Mediterraneo rispetto agli altri, visto che si sta parlando di prodotti di natura alimentare. Stupisce forse di più la presenza di un numero maggiori di denominazioni di origine riconosciute in Italia che in Francia o in Spagna, Stati con maggiori dimensioni e certamente con una cultura alimentare altrettanto radicata. Analizzando probabilmente l’elenco, si potrebbe constatare che talvolta le denominazioni d’origine in Italia sono servite più per risvegliare sopite ruggini tra aree geografiche limitrofe che la necessità di vedere riconosciuta l’unicità del prodotto oggetto di tutela. Per meglio chiarire, dall’elenco si riconoscono due differenti denominazioni relative all’aceto balsamico tradizionale, due differenti tipologie di pecorino toscano (una enclave nel territorio dell’altra), ma sono solo due esempi chiarificatori. Hanno ragione di esistere, certamente, ma rimane il dubbio della effettiva utilità pratica di queste diversificazioni.

Non stupisce nemmeno la necessità di tutelare in una forma differente dal marchio il nome tipico di una lavorazione, industriale o artigianale, perché al momento l’unica tutela oggi possibile sia il marchio collettivo, ovvero un marchio messo a disposizione di produttori di beni e servizi che soddisfino uno specifico disciplinare. La norma, infatti, non consente di identificare con una località un marchio d’impresa convenzionale. Di norma, il titolare del marchio collettivo è un’entità differente dai produttori, proprio per garantire la corretta gestione del controllo di qualità.
Stupisce piuttosto il fatto che le denominazioni d’origine sono volte a tutelare un paese, una regione o una località, quando siano adottate per designare un prodotto che ne è originario e le cui qualità, reputazione o caratteristiche sono dovute esclusivamente o essenzialmente all’ambiente, con il palese scopo di garantire il pubblico della qualità di un determinato prodotto e i produttori da eventuali millantatori.

I prodotti industriali

Ora, risulta particolarmente complesso comprendere come un prodotto industriale o artigianale possa vedere le proprie qualità, reputazione o caratteristiche esclusivamente o essenzialmente derivate dall’ambiente: un conto è l’identificazione di una materia prima particolare, che viene poi trattata per ottenere un prodotto con caratteristiche determinate, ma si tratterebbe comunque di denominazione di origine naturale, un conto è invece il metodo di trattamento di questo prodotto. Se la lavorazione avviene in una specifica area o in un’altra, è sostanzialmente impossibile prevedere che un consumatore si possa accorgere della differenza


Comprendo si tratti di una questione sottile, ma una corretta definizione dei limiti di ciascuno strumento di tutela, e non solo nel meraviglioso mondo della proprietà industriale mi viene da sottolineare, è fondamentale perché si mantenga il corretto equilibrio. Si pensi al momento in cui si definisce un’area in cui la denominazione di origine è applicabile: se già le denominazioni di origine per alimenti e affini comunque ha problemi non indifferenti per la gestione delle aree di confine, nel caso di una denominazione d’origine artigianale o industriale, l’area di confine dovrebbe risultare più ampia, proprio perché non ci sono limiti di carattere pedologico o di esposizione naturale, presenza di simbionti o antagonisti che rendono il prodotto particolare rispetto a quelli del circondario. Così, si vanno a creare squilibri insensati nella libera concorrenza tra imprenditori, senza che ci sia alcun vantaggio per il consumatore.
Nell’equilibrio che si dovrebbe vedere garantito tra libera concorrenza e tutela del valore aggiunto imprenditoriale, la nuova forma di tutela rischia di diventare un elemento estraneo, che potrebbe creare squilibri pericolosi. 
Si tratterà di valutare come il legislatore andrà a definire i regolamenti attuativi. Intanto, ad aumentare la preoccupazione, la normativa italiana ha recentemente modificato la norma sul deposito di marchi, evidenziando che non è ammissibile un marchio che sia evocativo di una denominazione d’origine.
Un altro elemento di squilibrio teorico che non lascia per nulla sereni.

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